La cura comunitaria si caratterizza prima di tutto per il fatto di avvenire in un luogo diverso dalla propria famiglia originaria o acquisita, diverso dal proprio territorio, diverso dall’ospedale e dagli ambulatori psichiatrici.
La Comunità è un libero luogo di cura e riabilitazione, ove volontariamente si decide (o si accetta) di vivere insieme ad altri pazienti e agli operatori che vi lavorano.
Chi soffre di un disturbo psichico fatica nelle relazioni con gli altri e, per tale motivo, può essere utile l’esperienza della vita comunitaria perché essa cerca di offrire rimedi e cure a questa dolorosa condizione.
La vita comunitaria si costituisce inoltre come luogo che favorisce lo stato di salute psichica e fisica dell’individuo, perché cura la sua rete di relazioni al fine di renderla più rassicurante e stabile. Siamo però consapevoli che il paziente può attribuire un significato di fallimento alla separazione dai luoghi e dalle persone alle quali è abituato, perché l’ingresso in comunità testimonia l’impossibilità di far fronte con le proprie forze alle difficoltà della vita, evidenziando quindi la debolezza del proprio funzionamento psichico in quel determinato momento della vita. Ciò è spesso doloroso per il paziente e rappresenta una sfida complessa per gli operatori.
Definire “terapeutica” una comunità significa che attribuiamo ad essa alcune caratteristiche peculiari e specifiche, che proveremo a sintetizzare:
La comunità è un ambiente protetto, nel senso che gli operatori cercano di proteggere sia i singoli pazienti, sia il gruppo dei pazienti nel suo insieme da fenomeni, dinamiche ed avvenimenti che potrebbero comportare sofferenza e disagio. Ciò non significa pensare di poter predisporre una protezione assoluta, cioè assenza assoluta di dolore e conflittualità, ma almeno quella eccessiva o evitabile. In comunità cerchiamo di creare e mantenere un clima sufficientemente tranquillo, vitale, piacevole.
Insistiamo particolarmente sul concetto di protezione perché riteniamo che molta dell’efficacia terapeutico-riabilitativa dipenda dal verificarsi di tale condizione. Per ogni singolo paziente è necessario individuare il tipo di protezione specifica e adeguata a lui, che può differire per qualità e quantità a seconda della storia personale e delle vicissitudini delle sue relazioni umane, intrise inevitabilmente di sofferenza e complessità.
Questa sorta di diagnosi della protezione si fonda su una adeguata valutazione dei bisogni del paziente, secondo l’accezione che il Professor G.C. Zapparoli attribuiva a questo termine, nel suo Modello dell’Integrazione Funzionale al quale noi ci riferiamo.
Partire dai “bisogni” del paziente significa in primo luogo capire al meglio il suo bisogno di sicurezza interiore, altrimenti indicato come sistema di sicurezza.
L’analisi attenta e accurata del sistema di sicurezza di ogni singolo paziente ci sembra un passaggio ineludibile, per individuarne le aree di forza e di fragilità, le seconde spesso rese evidenti dalla presenza di aspetti onnipotenti dei vissuti o del comportamento.
Infatti, solo se si riesce a soddisfare in misura sufficiente il bisogno primario e irrinunciabile di sicurezza – attraverso appunto la specifica e attenta cura/protezione che offriamo e l’accoglimento e la difesa della sua filosofia di vita nei suoi aspetti adattativi – allora sarà possibile che il paziente lasci emergere gradualmente le proprie risorse sociali, professionali, culturali, fino ad allora nascoste. Nei casi più fortunati, una volta verificata la presenza di tali risorse, si potrà procedere a svilupparle nel modo più armonico rispetto alla personalità di base.
Se la Comunità saprà offrire una sufficiente protezione/sicurezza, sarà anche possibile avventurarsi nell’area del “piacere”, dimensione della vita che sovente viene vissuta come pericolosa e impossibile dai malati, proprio perché minacciosa rispetto al proprio sentimento di sicurezza.
Questo è il senso principale della presenza in comunità di professionisti della salute mentale che sono preparati e dedicati alla cura, all’accudimento e alla terapia della sofferenza psichica.
La comunità è un luogo che ha la funzione di intermediario tra le richieste del mondo esterno e le esigenze dei pazienti. Per gli operatori si tratta, per così dire, di mettersi in mezzo e provare a “dosare” e “tradurre” da un lato le richieste della società e della famiglia, dall’altro i bisogni dei nostri pazienti, perché tra i due possa esservi comunicazione ed eventualmente convivenza. La comunità è come una piccola società che non fa paura e che rende il contatto con la società esterna meno pericoloso e doloroso.
La comunità è un ambiente che favorisce il paziente nello stringere relazioni con altri malati e questo può diminuire il sentimento di solitudine esistenziale e di stigma rispetto alla malattia. Infatti la comprensione del proprio malessere e di quello degli altri induce alla solidarietà, alla tolleranza e all’aiuto reciproco. In comunità i pazienti vivono insieme agli operatori: gli operatori, quindi, vengono coinvolti dalle emozioni, dalle idee e dai vissuti dei pazienti, sia singolarmente che come gruppo.
Di tali manifestazioni e comportamenti i curanti possono parlare sia con ciascun paziente – all’interno della specifica e talora intensa relazione che sovente si instaura – sia all’interno del gruppo curante durante le riunioni di équipe (tenute in genere ogni settimana), col vantaggio di aumentare le proprie capacità cliniche, di comprensione e di tolleranza.
L’impegno di chiunque vive e lavora nella comunità è di tenere al di sopra di tutto il rispetto dell’intelligenza e della sensibilità di ciascuno.
Il periodo di cura comunitaria, in virtù dell’inevitabile allontanamento fisico del paziente dai propri familiari, può favorire il raggiungimento di una giusta o migliore distanza emotivo/affettiva dagli stessi.
Per questo motivo noi poniamo molta attenzione al rapporto con i familiari cercando di coinvolgerli nel progetto di cura e, nel caso il paziente sia già seguito presso il proprio territorio da un curante o da una équipe curante istituzionale o privata, chiediamo a tale agenzia di mantenere a sua volta contatti con la famiglia e di aiutarci nel rapporto con loro.
La comunità è un ambiente ove è possibile un’attenta valutazione clinica della terapia psicofarmacologica, in quanto tale contesto offre una particolare stabilità e continuità terapeutica.
Questo elemento ci appare rilevante alla luce del fatto che spesso i pazienti, prima dell’ingresso in comunità, hanno storie cliniche lunghe e complesse nelle quali vari tipi di trattamenti farmacologici sono stati provati, spesso sommandosi l’uno con l’altro.
In comunità dove abbiamo la possibilità di un’osservazione quotidiana ed a lungo termine del paziente, possiamo individuare la terapia essenziale, che potrebbe essere intesa come la minima e più efficace terapia farmacologica, che aiuti il paziente nel suo equilibrio psichico e nei compiti della quotidianità.
Altro aspetto che ci sembra auspicabile è che l’esperienza comunitaria indirizzi i pazienti verso la corresponsabilità del trattamento farmacologico, in alleanza col medico, col fine e nella speranza che ogni paziente esca dalla comunità non solo col trattamento adeguato, ma anche con la personale responsabilità della sua assunzione.
Da ultimo indichiamo che il periodo di cura comunitaria è pensato fin dall’inizio come limitato nel tempo.
Alle dimissioni il paziente potrà fare ritorno al proprio territorio e alla propria famiglia originaria o acquisita, andare a vivere da solo qualora abbia recuperato o appreso le abilità necessarie, oppure provare a vivere insieme ad altri pazienti per i quali sente appartenenza e sintonia.
Questa ultima prospettiva è resa possibile da tentativi appropriati verso forme di vita comunitaria più “leggera” o a minor livello di protezione e presenza di operatori.
Qualora invece si constati che il paziente necessiti o chieda il mantenimento nel tempo di una quotidiana assistenza, si provvederà a individuare luoghi residenziali più adatti a questa sua esigenza vitale.